Proprio laddove l’attimo sembra essere un’effimera definizione di tempo, proprio dove sembra non esser possibile la demarcazione di una linea netta, la fotografia, con la propria necessità d’esistenza, sembra trovare lo spazio necessario ad un nuovo dubbio.
Mi chiesero :”come nasce una buona fotografia?”.
Chissà se la risposta fu compresa, ma non fui in grado di trovare altre precise definizioni: “la fotografia nasce nella consapevolezza dell’esistenza dell’attimo. Dove finisce l’attimo, inizia la tecnica”, dissi.
Il mio mondo fotografico è così, so di dover accettare la condizione instabile di salto tra un luogo appeso nel nulla, l’attimo, appunto, e la tecnica. Ci sono immagini che nascono in un istante e che nulla hanno a che fare con la macchina fotografica, riguardano la voglia di catturare, raccontare, esprimere, riguardano l’istinto, il desiderio di sentirsi al servizio degli accadimenti. Sono istanti che hanno una respirazione difficoltosa, un fiato corto, un cuore che batte velocissimo. Sono attimi che ricordi.
Ci sono attimi in cui l’immagine dovrà essere creata, voluta, costruita, pensata, vissuta dal momento in cui la pensi, fino al momento in cui la proporrai. Sono fasi del pensiero, di concentrazione, di sonno che non arriva mai, di sveglie anticipate.
Curioso. La parte più effimera della fotografia, quella che vive di attimi, ha uno stretto legame con la componente fisica della mia persona, il cuore, il respiro, la stanchezza dei muscoli, mentre, al contrario, la parte più “fisica” della fotografia, ha a che fare con la sfera meno tangibile dell’essenza di chi fotografa: la mente.
E poi c’è ancora chi crede che una buona fotografia sia figlia di una buona macchina fotografica.
Credo che potrei pensare a questa cosa per sempre. Lo farò.